Eccidio del Poligono di Tiro

22 agosto 1944

Nel pomeriggio del 21 agosto un “informatore” avvertì la GNR che nel bosco sulla riva sinistra dell’Adda, all’altezza di Boffalora, nei pressi della cascina Gelsomina, si annidava una banda partigiana. Infatti alla fine di giugno Oreste Garati (“Falco Rosso”) aveva sistemato in quel tratto di bosco i giovani da lui organizzati. Ai primi di luglio il “Falco Rosso” aveva portato le armi che erano state messe a disposizione da Eligio Mariconti. Quasi quotidianamente Garati portava i viveri che riceveva dal trippaio Pasquale Bonetti ed altri negozianti, Luigi Baggini e Mario Gorla.
Nel bosco di Boffalora stavano permanentemente Luigi Cremonesi, Ludovico Guarnieri, Ettore Maddè, Rino Paloschi e Luigi Paloschi, preveniente da Liscate. Franco Moretti e Giancarlo Sabbioni dopo il bombardamento su Lodi del 24 luglio non si unirono più ai compagni poiché sotto le macerie era deceduto Amedeo Sabbioni, padre di Giancarlo e zio di Franco: da allora i due cugini avevano occupato molto del tempo libero a lavorare sul luogo dell’incursione aerea.

Verso le 17:30 del 21 agosto una trentina di militi della GNR, trasportati da un autocarro al margine del bosco di Boffalora, avanzarono mimetizzandosi tra i campi di melica e gli avvallamenti del terreno. Colsero di sorpresa i giovani accampati presso un capanno tra pioppi e robinie: arrestarono Balconi, Guarnieri e Maddè, colpito alla schiena da un colpo di moschetto, mentre Cremonesi, un po’ discosto sulla sponda del fiume, si gettò in acqua riuscendo a fuggire. Nel capanno i militi sequestrarono le armi.
La cattura dei tre giovani era stata facilitata dalla loro imprudenza: non avevano rispettato rigorosamente le precauzioni indispensabili per un gruppo alla macchia, come l’organizzazione di un funzionale servizio di guardia e un piano di sganciamento.

Condotti alla caserma della GNR, in via San Giacomo, furono “opportunamente interrogati”: affiorarono le prime ammissioni sulla composizione e attività della banda del “Falco Rosso”.
Alle 20 quattro militi della GNR raggiunsero un cortile in via Oldrado da Ponte: portarono via i cugini Franco Moretti e Giancarlo Sabbioni, seduti a tavola per la cena. Intanto era stata bloccata via Fissiraga dove abitava Oreste Garati: inutilmente suo figlio Agostino, Celestino Trabattoni e Pino Locatelli si posero alla sua ricerca sperando di intercettarlo: alle 21 Garati varcava, strattonato dai militi, la soglia della caserma dove il maggiore Pietro Agosteo stava conducendo gli interrogatori.

Il “Falco Rosso” si sentì subito contestare il reato di organizzazione di banda armata e di omicidio dello squadrista Paolo Baciocchi. Egli capì presto di esser con le spalle al muro senza via di scampo, allo stato delle informazioni acquisite da Agosteo nelle precedenti tre ore di interrogatori-pestaggio. Allora Oreste Garati decise di assumersi con fierezza la responsabilità della sua militanza come clandestino e degli atti di guerra che in essa aveva compiuto, scagionando i suoi compagni.
Verso le 23 la vedova Baciocchi fu condotta faccia a faccia con Garati: gli chiese perchè le avesse ucciso il marito. Il “Falco Rosso” per evadere la risposta, futilizzò il movente riducendolo a vendetta per alcuni schiaffi ricevuti dallo squadrista anni prima. Sentendo ciò il maggiore scagliò a tutta forza una statuetta di bronzo, che teneva sulla scrivania, contro Garati, centrandolo in pieno viso. I colpi inferti al “Falco Rosso” avevano ormai fiaccato la sua capacità di resistenza: gli furono estorti i nomi di persone a lui collegate nella clandestinità: Pino Locatelli e un certo “Nemo, tenente e maestro” (Edgardo Alboni). […] Un’ora e mezza dopo la mezzanotte fu condotto nella caserma di via San Giacomo Cesare Pedotti per un confronto con il “Falco Rosso”. Pedotti non riconobbe subito Garati perchè “il viso era tutto lordo di sangue”. Il confronto risultò negativo ma permise a Pedotti di assistere a lungo al selvaggio trattamento riservato agli arrestati, in particolare al loro capo: il pavimento si imbrattò tanto di sangue che “uscendo vi si lasciavano le impronte”: perfino le pareti ne furono schizzate e si rese necessaria, il giorno dopo, la tinteggiatura dell’ufficio. Quella notte Agosteo, che orchestrava il pestaggio, ad un tratto aveva chiamato il suo attendente Giacomo Scarpini: gli ordinò di introdurre Leo il cane lupo della caserma, e lo fece avventare contro gli interrogati. Le violenze continuarono fin quasi all’alba, quando il Maggiore si ritirò per qualche ora di riposo.

Verso le 9 del mattino, 22 agosto, Agosteo partì in automobile per Milano per riferire al comando provinciale della GNR sul rastrellamento, sugli interrogatori e sulla sorte che si intendeva riservare ai sei arrestati. […] Venne autorizzata la fucilazione di cinque dei sei arrestati in quanto appartenenti a banda armata responsabile della morte dello squadrista Paolo Baciocchi. Balconi venne risparmiato in quanto era riuscito a convincere Agosteo di essere stato catturato da pochi giorni dalla banda del “Falco Rosso” e di essere poi rimasto nel bosco per timore di minacciate rappresaglie. […]

Alle ore 13 dal cancello della caserma della GNR uscì una corriera di colore rosso scuro con a bordo i cinque condannati, i militi del plotone di esecuzione, il parroco della “Maddalena” don Domenico Saletta; l’automezzo avanzò lentamente, svoltò in via Defendente seguito dagli sguardi angosciati di uomini e donne della “città bassa”.
Poco dopo sull’assolato spiazzo erboso del Poligono di tiro, caddero colpiti a morte Oreste Garati, Ludovico Guarnieri, Ettore Maddè, Franco Moretti, Giancarlo Sabbioni.

I corpi dei cinque compagni erano stati sistemati dentro casse dalle stesse mani che li avevano fucilati. Solo al mattino seguente i parenti ottennero di schiodare le bare per vedere le salme e farle oggetto di gesti di estrema pietà e saluto: rimasero agghiacciati allo scoprirle tanto martoriate, quasi irriconoscibili.

Tratto da il libro “Dal carcere chiamando primavera” di Ercole Ongaro