
Nei primi mesi del 1944, anche grazie all’arrivo della primavera e alle sollecitazioni provenienti dalla struttura clandestina del Partito comunista, venne delineandosi il progetto di dar vita a una formazione partigiana: sorse la 167ª Brigata Garibaldi, che si muoveva nei comuni a nord della collina di S. Colombano al Lambro e in quelli a sud fino al Po. Comandante fu Ermanno Monti, nome di battaglia “Ermanno”; commissario politico Gianni De Vecchi, nome di battaglia “Cavalin“.
Oltre al distaccamento dei chignolesi (Gianni e Cesare Beccali, Carlo Porrini, Carlo Rossi, Giovanni Vitti “Canéla”, il romano Franco Pappacena e il milanese Eugenio Boccadoro), ve ne era un altro nei paesi a nord della collina con Luigi Vignati (“Gino Scrivanti”), Pietro e Paolo Biancardi e un certo Cobianchi di Livraga, Francesco Bellinzona (“Nélu”) e Luigi Curti (“Luisìn”) di Borghetto Lodigiano, Bruno Dalcerri di S. Colombano al Lambro.
Le basi del distaccamento chignolese erano i boschi di Lambrinia e alcune cascine del Lungo Po; per alcune settimane, in estate, la brigata si sistemò nell’edificio di proprietà della Curia pavese in Valbissera, sul crinale della collina di S. Colombano. La stagione estiva favorì le azioni di guerriglia, le cui avvisaglie erano già state annunciate a Chignolo fin dal novembre 1943 tramite l’affissione di due manifestini manoscritti, di evidente produzione locale, “incitanti at uccidere locale segretario fascio repubblicano et fascisti et tedeschi”.
I notiziari della GNR hanno registrato un’azione compiuta la notte del 4 agosto: nei pressi di Chignolo Po un gruppo di “banditi” fermarono e rapinarono un autocarro con targa della GNR guidato dal brigadiere Giorgio Bongi del Reparto Motorizzazione Trasporti del Comando generale; poiché il Bongi fu “lasciato in libertà dai banditi”, i suoi superiori sospettarono che fosse “responsabile di favoreggiamento”. La sera del 26 agosto – documenta un altro “Notiziario” – a Chignolo Po una ventina di “banditi armati” si presentò al domicilio di Gioacchino Buggiani, da dove “asportarono biancheria, biciclette, un fucile da caccia e altri oggetti”. I frequenti spostamenti dei componenti la Brigata attirarono l’attenzione dei fascisti. Il comandante della Brigata Nera di S. Angelo Lodigiano, Lino Meucci, segnalò ai suoi superiori, l’11 settembre 1944, che “una grossa banda di partigiani si aggira nei pressi di Graffignana”, mostrandosi armati anche in paese; Meucci consigliava di preparare un rastrellamento coordinato con la Brigata nera di Pavia così da attaccare contemporaneamente da entrambi i versanti della collina, “onde precludere ai partigiani ogni via di scampo”.
Le prime perdite avvennero il 15 settembre: “Scrivanti” e un suo compagno furono uccisi alla cascina Maiano di S. Angelo Lodigiano durante un tentativo di recupero di armi e di denaro.
Il 24 settembre un nucleo della 167ª Brigata Garibaldi attentò alla vita del milite fascista Attilio Battiani. Ai primi di ottobre fu disarmato il commissario del fascio di Borghetto Lodigiano, al quale si intimò di abbandonare la zona, se non voleva rischiare la vita. L’11 ottobre nei pressi di Casalpusterlengo furono uccisi due militi della GNR ad opera di un nucleo gappista della 167ª.
Ma il 18 ottobre fu la GNR a colpire, catturando Pietro Biancardi e Paolo Sigi; sei giorni dopo caddero nella trama repressiva Paolo Biancardi (che morì per le ferite), Marcello De Avocatis, Ferdinando Zaninelli e Giuseppe Frigoli. Quest’ultimo era amico dei fratelli Biancardi, ma non attivo nella guerriglia partigiana. Pertanto il comandante della Brigata Nera di Lodi, Ugo Morelli, avvertiva i suoi superiori che “i paesi di S. Colombano, Graffignana, Livraga, Borghetto Lodigiano, S. Angelo, stanno diventando zone pericolose”; preannunciava rastrellamenti.
Le forze partigiane allora tentarono di colpire a sud della collina: il 28 ottobre era in programma un colpo grosso, proposto dalla 6ª Brigata Giustizia e Libertà dell’Oltrepò piacentino e pavese: attaccare a Camporinaldo un convoglio di auto che trasportava un alto ufficiale tedesco per sottrargli documenti importanti che avrebbe avuto con sé. Vi parteciparono Gianni Beccali, Eugenio Boccadoro, Carlo Porrini e quattro partigiani dell’Oltrepò. Per un imprevisto l’azione fallì; infatti, mentre i sette partigiani erano sulla strada, sopraggiunsero due militi della GNR in bicicletta e il conflitto a fuoco con loro (uno di essi fu ucciso) fece fallire l’agguato programmato. Essendo stati riconosciuti da molti testimoni, fu deciso il trasferimento in montagna, a Romagnese, dei partecipanti all’azione.
I mesi più difficili della Resistenza, da fine ottobre 1944, Gianni li visse prevalentemente in montagna, nell’Oltrepò, ma la sua mobilità fu sempre molto elevata: scendeva e risaliva. Anche Monti, De Vecchi, Curti, Bellinzona, Pappacena e altri componenti della Brigata salirono in montagna, a causa dell’intensificarsi della repressione fascista dopo l’agguato di Camporinaldo, ma non vi si adattarono: la nostalgia/attrazione per la pianura, dove si erano formati come partigiani, fu irresistibile. Erano prigionieri di un sogno al limite dell’impossibile: realizzare una brigata permanente di guerriglia in pianura, fidando nelle nebbie autunno-invernali, nella conoscenza palmo a palmo dei luoghi, nella solidarietà della popolazione.
L ’antivigilia di Natale del 1944 altre dolorose perdite: Bruno Dalcerri di S. Colombano e Carlo Porrini incapparono in un posto di blocco a Camporinaldo, mentre si recavano a un incontro con membri del CLN di Milano. Furono immediatamente fucilati. I funerali di Porrini, stroncato a 21 anni, si svolsero il 26 dicembre; il parroco nel Liber Defunctorum annotò che era stato “rinvenuto morto vicino al Casello Cimitero di Camporinaldo pieno di ferite da arma da fuoco”.
Dalcerri, che abitava a Campagna di S. Colombano, era stato sepolto il giorno di Natale e al funerale avevano partecipato poche persone, anche perché militi fascisti erano girati poco prima per le strade sparando a scopo di intimidazione.
Un mese dopo, il 26 gennaio cadde Cesare Beccali, ventiduenne, fratello di Gianni. Si era recato con Giovanni Vitti presso il commissario prefettizio di S. Cristina e Bissone, dove avrebbero dovuto ritirare delle armi, secondo un precedente accordo. Cesare rimase colpito da colpi sparati da soldati cecoslovacchi, presenti numerosi sul territorio, e consegnato alla GNR, che lo torturò fino a farlo morire. Gianni di notte si recò a casa a porgere l’ultimo saluto al fratello. Si sentì torcere dal dolore e avvampare di rabbia: fu pervaso da una forsennata voglia di ribattere colpo su colpo. Ritornato in montagna, chiese di essere inserito ogni giorno in azioni rischiose, di essere designato a tendere pericolose imboscate, per sfidare faccia a faccia il fantasma della morte che gli aveva portato via prima il più caro amico poi il fratello. Gianni si gettò ancor più a capofitto nella lotta, fu in preda a furori di morte per sé e per gli altri, disposto a perdersi nell’estremo tentativo di afferrare le residue ragioni per vivere.
Il rosario di morti non era però finito: il 19 marzo fu decapitata la 167ª Brigata Garibaldi: vennero sorpresi, grazie a una delazione, alla cascina Montalbano di Monticelli Pavese De Vecchi, Monti, Franco Pappacena; li ospitava Giuseppe Albanesi. Avendo visto colpito a morte l’Albanesi e ferita sua nipote Alfonsa, i tre partigiani per non mettere a rischio gli altri familiari comunicarono agli assalitori che si arrendevano, ma De Vecchi all’ultimo decise di togliersi la vita per non cadere vivo nelle loro mani. Monti e Pappacena furono portati subito al cimitero di Chignolo e fucilati dopo aver ricevuto dal parroco don Brusoni i conforti religiosi. Fu scattata una fotografia ai due corpi riversi: il volto di Ermanno, in primo piano, appare sfigurato da copioso sangue sgorgato dalla bocca: dopo i primi colpi ricevuti, avendo egli ancora gridato “Viva l’Italia!”, i suoi carnefici vollero dargli il colpo di grazia sparandogli in bocca.
Il 23 febbraio invece uomini della 167ª avevano compiuto un’azione dimostrativa, descritta telegraficamente dal capo della Provincia al Ministero dell’Interno:
Telegramma del capo della Provincia Tuminetti al Ministero dell’Interno, Pavia 28 febbraio 1945
Ore 0,30, Chignolo Po, circa 12 fuorilegge penetrati uffici comunali asportarono 2 Olivetti 1 ciclostile. Poscia dal balcone esponeva una bandiera rossa con emblema della falce e martello e sui muri scriveva con gesso frasi inneggianti alla fondazione delle Squadre d’Azione Po (SAP) ed all’armata rossa e denigranti i fascisti di Corteolona.
La stagione autunno-invernale si concludeva con un bilancio pesantissimo per il movimento partigiano che faceva riferimento alla 167ª Brigata Garibaldi; ai morti qui ricordati, va aggiunta la fucilazione, avvenuta il 31 dicembre al Poligono di tiro di Lodi, dei cinque arrestati in ottobre. Un prezzo altissimo era stato pagato per inseguire un obiettivo troppo azzardato e rischioso: radicare la guerriglia in pianura in maniera stabile, non episodica. Ma era un sogno che stava all’interno di un sogno più grande, di portata storica: la fine della guerra e della dittatura, l’inizio di un’era di pace e di libertà.
Tratto da “Gianni Beccali Resistenza Chignolo Po 1943-1945” di Ercole Ongaro