
Nato a Zorlesco il 7 gennaio 1918, figlio di fornaciai e lui stesso lavoratore alla Fornace di Zorlesco, di carattere inquieto e ribelle di natura, Giovanni De Vecchi non sopportò i soprusi, animoso e spigliato non perse mai occasione di difendere i propri diritti, facendosi valere spesso con forza. Chiamato alle armi nel 1938 fu arruolato nei granatieri, grazie alla sua prestanza fisica. Richiamato e spedito in Grecia per la campagna di guerra, si ammalò ai polmoni, ed ebbe dei periodi di convalescenza, a casa. Tornato in Grecia mai sopportò la vita del fronte.
Nel 1942 per una discussione sulla paga che allora percepivano le camicie nere al fronte (pari a 5 lire giornaliere, mentre i militari dell’esercito percepivano solo 40 centesimi) litigò con un Sottufficiale fascista delle camicie nere, passando alla via di fatto. Rispondendo alle pesanti minacce estrasse la baionetta d’ordinanza uccidendo il Sottufficiale. Arrestato e processato da un Tribunale Militare fu condannato e portato al carcere di Gaeta. All’indomani della caduta del fascismo (25 luglio 1943) fuggì dal carcere facendo ritorno a Zorlesco.
In autunno, alla costituzione della Repubblica di Salò, ai aggregò agli antifascisti di Zorlesco, senza comunque lasciare il paese. Alla metà del novembre 1943 fu inviato al 3° GAP di Milano in semiclandestinità, unitamente a Luigi Maggi ed a Giuseppe Trezza. Per la sua estrema versatilità all’azione, rapida, intelligente e fulminea, espresse in Milano il proprio coraggio in molte azioni di lotta, nei Gap, in parte condotte in solitario e con positivo esito. Partecipò alle azioni del 3° GAP “Rubini” sino al maggio 1944 quando, dopo la morte di Luigi Maggi, il gruppo di Zorlesco fu virtualmente scoperto e dovette lasciare la città lombarda.
Lasciata Milano ai primi di giugno del 1944 il gruppo fu inviato alla 165ª Brigata Rosselli in Valtellina. De Vecchi divenne comandante di distaccamento in virtù delle sue esperienze, condusse varie azioni, ma la vita di montagna e il sistema di operare in gruppo non lo appagavano e non rientravano nei suoi schemi di comportamento, sicché decise autonomamente un suo ritorno a casa, a Zorlesco. Braccato dai fascisti si nascose nella Fornace, venne poi fatto aggregare alla 167ª SAP in zona Lambrinia (Chignolo Po, Pavia). Con Ermanno Monti e il romano Franco Pappacena costituì un piccolo gruppo d’azione, operante sul Lambro. Ma lasciava spesso i compagni per operare da solo. Altre volte si spostava nella zona di Livraga, Borghetto, Brembio, Zorlesco con i due compagni di lotta.
A S. Colombano al Lambro alla Filanda “Carlo Viganò” mise in fuga i fascisti che volevano perquisire le donne della Filanda all’uscita dal lavoro. Giovanni De Vecchi non si dette mai sosta nel colpire i fascisti. Era diventato il pericolo numero 1 del fascio lodigiano, ricercato da tutta la G.N.R. Il 3 settembre 1944 , alla sera, veniva ucciso in Zorlesco Bruno Schena spia politica segreta dell’Ovra ( la Polizia Segreta Fascista) delatore di numerosi antifascisti. Il 5 settembre in occasione dei funerali, le camicie nere della “Resega” incendiarono la casa dei genitori di Cavalin autentica “Primula Rossa” dei partigiani lodigiani e sospettato dai fascisti di aver ucciso Schena. I genitori di De Vecchi furono messi al muro con l’intenzione di fucilarli. Fu allora che intervenne il coadiutore della parrocchia zorleschina Don Mario De Bergomi, il quale con esemplare coraggio si offerse come ostaggio in cambio della vita dei vecchi genitori del Cavalin. Tutto però fini al meglio a seguiti di un alterco tra le camicie nere ed i militari tedeschi della Todt , che dietro la casa bruciante dei De Vecchi tenevano un magazzino con depositi di carburante. Le camicie nere se ne andarono minacciando vendette. Un gesto , quello di Don De Bergomi, di raro altruismo e di incomparabile disposizione al sacrificio in favore dei più deboli che è senza dubbio un fulgido esempio per il mondo odierno dove spiccano egoismi ed indifferenza.
Giovanni De Vecchi nascosto nei campi, presso la cascina Malgonera, ebbe l’occasione di vedere l’incendio della casa e di lì a breve tempo pareggiò il torto ricevuto . Operò un sequestro di una camicia nera che cambiò con la libertà della fidanzata, De Vecchi Caterina, arrestata e portata in carcere a Lodi con un’amica. Per tutto l’inverno 44/45 “Cavalin” proseguì instancabilmente la lotta contro i fascisti ,tra l’altro giustizierà il famigerato sergente delle Brigate nere, Gaetano Pinchiroli “Barbisin“, responsabile di deportazioni, fucilazioni e altre violenze. Braccato da tutta la Guardia Nazionale Repubblicana del Lodigiano, accanita e rabbiosa per i molteplici scacchi subiti, fu individuato, nel marzo 1945, dietro delazione, nelle campagne di Chignolo Po, in compagnia di altri 2 partigiani. Fatti affluire in massa i rinforzi venne accerchiato alla cascina Montalbano di Monticelli pavese, il 18 marzo 1945. Per l’intera giornata vi fu un’accesa sparatoria: Albanesi Giuseppe, l’agricoltore (1900-1945) fu colpito a morte, fu pure ferita la figlia Alfonsina. Rimasti senza munizioni e col pericolo di mettere a repentaglio la vita della moglie dell’agricoltore e degli altri figli, il gruppo si arrese. Giovanni De Vecchi per non cadere vivo nelle mani dei fascisti si sparò l’ultimo colpo di pistola alla tempia. Gli altri partigiani, Monti ed il romano Pappacena si arresero furono portati al cimitero di Chignolo Po e fucilati immediatamente. Era il 19 marzo 1945 giorno di S. Giuseppe, mancava poco di un mese alla fine della guerra e all’insurrezione.
Moriva così Giovanni De Vecchi detto “Cavalin” l’uomo più temuto dalle camicie nere del basso lodigiano, l’uomo che con il proprio spirito ed il proprio coraggio aveva portato a termine operazioni di esempio per tutti a lottare contro la dittatura fascista.
