
Dina Clavena è nata a Codogno, in Via Cavallotti, il 13 dicembre 1923 ed è morta il 5 luglio
1983, figlia di Gaetano e di Crespi Carmela.
Un giorno i fascisti, nel 1938, entrarono in un bar e chiesero di Gaetano. I parenti dicono che non c’è, ma lui è lì. Si fa avanti e dice: “Clavena sono io”. I fascisti lo prendono e
lo portano via. Il suo corpo, orribilmente maciullato da un rullo compressore, viene trovato qualche ora più tardi da alcuni parenti.
L’8 settembre Dina Clavena (detta “Stella Rossa”) e suo fratello Angelo raggiungono le prime formazioni partigiane. Angelo si unisce alla formazione Beltrami e cade a Megolo (VB) insieme a Filippo Maria Beltrami il 13/02/1944. Dina viene catturata dai fascisti diverse volte, ma riesce sempre a fuggire: una prima volta a Forno (VB) il 09/03/1944 e liberata in agosto; una seconda volta a Colazza (NO) il 28/11/1944 e liberata il 15/03/1945.
Finita la guerra e tolta la divisa, tornò a casa e si ritirò a vita privata. Una sola volta, nel 1975, rilasciò un’intervista alla giornalista Donata Righetti del quotidiano “Il Giorno”:
“Finita la guerra mi sono tolta la divisa e nessuno mi ha più vista. Per trent’anni sono scomparsa, presa in una vita uguale a quella di tante altre donne: il matrimonio, i figli. Mi sono sentita dire come molte donne, che ” il mio posto era in casa”. Non ho partecipato a nessuna manifestazione, a nessuna celebrazione, non ho nemmeno chiesto una pensione. Sono fuggita, perché quando la guerra è finita, ho visto troppe cose che non mi sono piaciute. Fascisti che si dicevano partigiani, gente che strumentalizzava la lotta. Quello che accadeva nel nostro Paese non era il futuro che avevamo sperato. Ma se tornassi indietro non rinuncerei a combattere, lo farei ancora. Perché c’è qualcosa dentro di noi, una rabbia, un dolore che non può non esplodere di fronte ai soprusi e all’ingiustizia. Mi sono decisa a rompere il mio lungo silenzio perché il fascismo contro il quale abbiamo lottato è ancora tra noi, sta diventando sempre più forte e allora dimenticare diventa un lusso. Mio padre era solo quando gli si pararono davanti quindici fascisti con la camicia nera. Lo intontirono di botte e poi lo trasformarono in poltiglia sotto uno schiacciasassi. Mio fratello Dino mi è morto a nove anni, dopo che degli scalmanati gli avevamo frantumato le mani. Stava giocando vicino a casa. Si era messo al collo un fazzoletto rosso. Lo hanno preso, gli hanno fatto appoggiare le mani al muro e gli hanno spaccato tutte le dita. Alla sera gli è venuta una gran febbre e due giorni dopo è morto. La mia storia comincia qui. Dopo un periodo in carcere perché avevo aggredito il federale di Codogno che picchiava brutalmente mio fratello Lolo durante un interrogatorio, raggiunsi la formazione di Beltrami in Val d’Ossola. Il mio nome di battaglia era “Stella rossa”. Ho combattuto con i fratelli Di Dio, Gaspare Pajetta, Filippo Maria Beltrami, Aniasi, il capitano “Iso”.
“Stella rossa” qual è la tua sorte/ Vogliamo la tua morte”.
Con questa cantilena mi trascinavano fuori ogni giorno, per una settimana intera, i fascisti che mi tenevano prigioniera a Novara. “Stella rossa” qual è la tua sorte, mi urlavano addosso quando mi legarono a un pilone nella piazza di Varallo con la gente del paese che era costretta a sputarmi in faccia e, quando, a Torino aspettavo di essere impiccata come i miei compagni in Corso Guinzaglio.
– C’erano altre ragazze lassù in Val d’Ossola con la formazione di Beltrami?
Nessuna e i partigiani non mi volevano, pensavano che non fosse il posto per una di 20 anni. Li convinsi e mi dissero “ci farai da mangiare”. Ma io invece volevo un fucile e volevo usarlo.
– Perché un fucile?
Perché quello non era tempo per stare in cucina. Ebbi un fucile e anche una Mauser. Nella nostra formazione eravamo più di centocinquanta. Si facevano saltare i treni, si assaltavano caserme, ma era ancora una specie di apprendistato. Un giorno Beltrami ci disse: “Dobbiamo partire, da questo momento avremo solo fame e lotta. Chi vuole può ancora andarsene”. Rimanemmo in cinquantasei. La notte del 13 febbraio del ’44, a Megolo, fummo attaccati da SS e da fascisti. Era un vero esercito con molti carri armati. Seppi che mio fratello Lolo era stato ferito e corsi giù dove stavano combattendo. Mi misi al suo fianco e cominciai a sparare. Intorno solo fuoco e cadaveri, anche quello di mio fratello. Era ancora viva, ma ero rimasta sola. I fascisti avevano fatto cose terribili, molti morti penzolavano dagli alberi. Io volevo portarli in chiesa. Mi aiutò della gente del paese, ma quando arrivammo in piazza trovammo i fascisti. Qualcuno mi buttò sotto la catasta dei cadaveri. Così mi salvai.
– E la paura Dina? Lei era una ragazzetta, non aveva paura?
Sì, ho avuto paura. Passata nella formazione Aniasi, per recuperare delle armi, certe volte, dovevo attraversare i posti di blocco, allora urlavo: lasciatemi passare, sono fascista, i partigiani mi inseguono. Invece ero sola e, correndo, mi pareva di sentire le scariche di mitra dietro la schiena. È impossibile spiegare, raccontare quello che abbiamo vissuto. Poco tempo fa mi è capitato di vedere uno sceneggiato alla televisione, ambientato in Val d’Ossola, durante la Resistenza. Mi sono indignata. Sembrava che i partigiani non avessero altro da fare che chiacchierare o discutere. Si erano dimenticati della fame, del freddo e, soprattutto, dei nostri morti.
– Come si comportavano con lei i compagni della formazione?
Ero diventata un simbolo, un’astrazione. Nessuno pensò mai di toccarmi e nessuno lo fece. Ogni volta che partivano per un’azione insieme a me erano più contenti. Dicevano: “Se viene la Dina, andrà tutto bene!” Tra i ricordi più drammatici c’è l’assalto all’infermeria partigiana di Forno di Vallestrona, dove si erano rifugiati nove partigiani feriti. Avevamo saputo che l’infermeria sarebbe stata attaccata, ma la situazione era senza speranza, non potevamo aiutarli. Aniasi, il capitano Iso, voleva legarmi per non farmi andare. Mi alzai di notte e arrivai poco prima dei fascisti. Ma dovemmo arrenderci. Ci legarono insieme: me, i due medici, i feriti e cominciarono a bastonarci. Quando sono rinvenuta, ero l’unica viva. Da quel momento, fino alla fine della guerra ho conosciuto le prigioni e le camere di tortura di Vercelli, di Novara, di Domodossola, di Torino. Spesso mi facevano indossare una divisa da fascista e mi portavano in giro per le valli. “Allora, dove si nascondono i partigiani?” E io zitta ogni volta, e ogni volta erano botte feroci. Quando uscii dal carcere non ero più in grado di camminare, mi ci vollero sette operazioni per guarire. Ma prima dell’ospedale, volli andare a disseppellire i compagni morti nelle valli.